Il serrato dibattito politico e pubblico sul MES, come prevedibile, si è giocato nei termini distorti di una contrapposizione fra “l’europeismo” responsabile e la strumentale opposizione della Lega e delle destre radicali. Come già accaduto su tutti i temi sensibili di politica europea, Salvini e la Lega abbaiano per non mordere, dimenticandosi di essersi trovati al governo quando – nel corso del 2018 – i termini dell’accordo sulle riforme al trattato del MES sono stati negoziati e di essersi interessati ben poco a una questione che adesso sventolano come un “tradimento” alla nazione. Senza la pretesa di offrire qui un’analisi esaustiva dei pro e dei contro sul trattato del MES, vale la pena di concentrarsi su una questione di fondo, che in parte racchiude il vicolo ciecocui conduce l’architettura e funzionamento del fondo salva stati.
Il problema, in soldoni, è il seguente: nel suo trattato istitutivo, così come nella sua più recente proposta di riforma, il MES non potrà in alcun modo assolvere alla funzione che spetterebbe a una banca centrale prestatrice di ultima istanza a livello dell’eurozona. La logica del MES è – e non può che essere – quella di un fondo che accorda prestiti a governi che ne facciano richiesta sulla base di criteri e condizioni dettati dagli Stati che ne sono i finanziatori. Un tale sistema si fonda necessariamente sul potere contrattuale dei governi creditori e sulle regole che impongono sia i requisiti minimi per potere accedere a un sostegno finanziario di ultima istanza, sia le condizioni che un governo debba impegnarsi a sottoscrivere nel caso in cui risulti beneficiario di un tale prestito. Tali condizioni rispondono alla necessità di prevenire l’azzardo morale, cioè il fatto che i potenziali beneficiari siano incentivati a non tenere in ordine i propri conti pubblici avendo la sicurezza di un fondo comune a sostenerne eventuali crisi, ponendo i potenziali creditori netti in una situazione di svantaggio.
Proprio per scongiurare questo i governi che si trovano ad essere potenziali creditori netti – nell’eurozona in particolare la Germania e i Paesi del Nord Europa – hanno posto un sistema di condizionalità ex post ed ex ante particolarmente stringente. Da questo punto di vista, la riforma del MES non fa che accentuare elementi già contenuti nel suo trattato istitutivo, introducendo più chiaramente le condizioni ex ante per l’accesso al fondo. Fra queste figurano non solo le regole del debito e deficit eccessivo, ma anche il contestato concetto di disavanzo strutturale (il disavanzo di bilancio depurato dagli effetti del ciclo e delle una tantum) come criteri che tutto gli Stati membri debbano rispettare per risultare potenzialmente beneficiari degli strumenti di assistenza finanziaria precauzionali del MES. Qui in sostanza la sua contraddizione di fondo: il MES dovrebbe servire a scongiurare l’aggravarsi di crisi finanziarie nei suoi Stati membri, ma attraverso la valutazione ex ante dei criteri (discutibili) di stabilità finanziaria, esso rischia di far aggravare quelle stesse crisi. Di fronte a un Paese valutato negativamente dal board del MES e dalla Commissione, e che quindi potrebbe potenzialmente non beneficiare della sua assistenza, i mercati finanziari e i risparmiatori sarebbero incentivati a scommettere contro la sua tenuta – portando in Paesi “più sicuri” i propri investimenti e risparmi –, secondo una classica dinamica di “profezia che si auto avvera”, aggravando la crisi che avrebbe dovuto contenere.