Un “Green New Deal” europeo per pochi o per tutti?
La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha presentato il piano per un “Green New Deal” con cui rendere l’Unione europea protagonista della rivoluzione verde a livello mondiale.
L’agenda illustrata al Parlamento europeo prevede obiettivi ambiziosi e di portata storica, come quello di rendere l’UE a impatto climatico zero nel 2050, attraverso un’apposta legge europea sul clima e l’adozione di interventi normativi mirati già a partire dal prossimo marzo. Il primo fra questi riguarderà la de-carbonizzazione del settore energetico europeo, con l’obiettivo di ridurre le emissioni dei gas a effetto serra del 50% per il 2030. Un piano di investimenti pubblici e sostegno alle iniziative private che metta al centro l’economia circolare, l’innovazione e le tecnologie “green”, i modelli di produzione, finanza e mobilità eco-sostenibili. Un programma notevole anche per le risorse finanziarie previste, dal momento che la sua realizzazione richiederebbe secondo la Commissione un impegno di 260 miliardi all’anno. Come evidenziato più volte da von der Leyen e dai documenti della Commissione, un simile piano mira a una “transizione giusta e inclusiva” per “migliorare il benessere delle persone” e delle future generazioni. Se questo è l’obiettivo di questo “nuovo patto” fra politica e cittadini in Europa, l’ambizioso piano della Commissione presenta una grave omissione.
Un “New Deal” per rivoluzionare il modello di sviluppo in senso ecologicamente sostenibile, infatti, non può prescindere dalla necessità di garantire allo stesso tempo una rivoluzione della politica economica europea in senso socialmente sostenibile. Un “patto” ecologico per un nuovo modello di società o riguarda tutti e non lascia indietro nessuno o è destinato in sé stesso a riprodurre, se non acuire, le tensioni e diseguaglianze che compromettono ogni patto possibile fra istituzioni europee e cittadinanza. Ecco perché il Green New Deal europeo farà ben poca strada senza una riforma ancor più profonda del modello di governo e coordinamento delle politiche economiche nell’Unione e in particolare nell’eurozona. Per garantire una transizione “giusta e inclusiva”, bisogna mettere innanzitutto tutti gli Stati Membri nelle condizioni di poter realizzare proprio quegli investimenti necessari alla ristrutturazione dei modelli produttivi e di consumo ecologicamente insostenibili che includa e non marginalizzi ulteriormente i soggetti che più hanno pagato il prezzo della crisi. Per creare davvero maggiore occupazione a livello europeo in ambiti eco-sostenibili, bisogna innanzitutto porre la piena e buona occupazione come obiettivo centrale delle politiche di coordinamento economico dell’UE. Ma questo significa mettere gli Stati membri nelle condizioni di attuare politiche fiscali espansive, di poter realizzare investimenti pubblici per l’innovazione, la ricerca e la formazione, la mobilità sostenibile e l’efficientamento energetico degli edifici e delle città, la promozione dell’economia circolare. Le condizioni di un nuovo patto sociale “verde” a livello europeo passano quindi innanzitutto da un profondo ripensamento degli obiettivi, metodi e strumenti del governo economico, fiscale e finanziario dell’UE, a cominciare dal Patto di Stabilità e dall’impianto normativo adottato in risposta alla crisi dei debiti sovrani, dal Fiscal Compact, al semestre europeo, fino alla recente riforma del meccanismo di stabilità europeo. Primo passo necessario, ad esempio, sarebbe scorporare dal patto di stabilità tutti gli investimenti pubblici mirati alla creazione di posti di lavoro, innovazione, formazione, ricerca e sviluppo in tutti gli ambiti legati alla transizione eco-sostenibile. In assenza di questo profondo riorientamento delle politiche europee, il “Green New Deal” sarà un patto di transizione “giusto” solo per pochi.