L’esperimento è stato messo in campo tra il 2015 e il 2019, con una riduzione dell’orario di lavoro da 40 a 35-36 ore settimanali, per arrivare a una settimana lavorativa composta solamente tra 4 giorni. I dipendenti erano impiegati in diversi settori del pubblico, dagli ospedali agli uffici amministrativi, dai servizi sociali alle scuole materie.
A fronte di una riduzione delle ore lavorate, va sottolineato, lo stipendio di questi dipendenti pubblici è rimasto il medesimo. E, dati alla mano, l’esperimento islandese sembra essere l’avveramento dei sogni di qualsiasi lavoratore: con meno ore, e con il medesimo stipendio, la produttività è risultata uguale, o persino maggiore.
Al termine dell’esperimento è stato inoltre rilevato un netto miglioramento della qualità di vita dei lavoratori, in diversi campi: si parla infatti della salute, dello stresspercepito e del work-life balance.
L’esperimento islandese ha portato dei dati chiari, che hanno fatto il giro del mondo; va però sottolineato che altri Paesi hanno discusso e stanno discutendo intorno alla possibilità di provare la settimana lavorativa corta, a partire da Spagna, Finlandia e Germania.
E in Italia?
Qualcuno ci ha pensato, con piccole realtà che con l’introduzione dello smart working hanno deciso di testare anche i 4 giorni lavorativi in luogo dei classici 5.
Come hanno fatto alla Raffin House Technology di Brunico, in Alto Adige, con risultati molto soddisfacenti sia per l’azienda che per i lavoratori.
Ma si tratta davvero di un futuro percorribile per il nostro Paese?
«Incontrando ogni giorno molti dirigenti, manager e professionisti qualificati ho conosciuto le più differenti modalità di organizzazione della settimana lavorativa, a livello nazionale e internazionale e non ci sono dubbi nell’affermare che con l’introduzione dello smart working le imprese possano effettivamente prendere in seria considerazionel’introduzione della settimana lavorativa corta, conducendo dapprima dei test su un numero selezionato di dipendenti».
Tante imprese, a livello globale, sembrano intenzionate a seguire l’esempio islandese.
«Certo, è notizia di pochi giorni fa che lo stesso Giappone desidera introdurre la settimana corta, e non a caso» spiega Adami. «Tutti conosciamo il Giappone come un Paese in cui l’attaccamento dei dipendenti e all’azienda è fortissimo, tanto da toccare talvolta lo stacanovismo; è però anche vero che questo Paese sta affrontando problemi come la produttività bassa, il calo demografico e il calo dei consumi. Introducendo la settimana corta, e quindi aumentando il tempo libero da dedicare alla famiglia o alla formazione, si potrebbe raggiungere il doppio obiettivo di aumentare la produttività e di rilanciare i consumi» continua Adami.
Questa mossa del Giappone dovrebbe spingerci a guardare con ancora maggiore attenzione alla possibilità della settimana corta.
«Proprio così» sottolinea Adami «soprattutto pensando che anche in Italia si affrontano problemi simili a quelli giapponesi: basta guardare ai dati relativi all’andamento demografico, alla produttività e alle ore lavorate».
Non bisogna dimenticare infatti che l’Italia è il secondo Paese in Europa per quantità di ore settimanali lavorate, che sono mediamente 7 in più rispetto a quelle della Germania.
Cosa che dovrebbe far ancora più riflettere sull’adozione della settimana lavorativa corta, visti gli enormi vantaggi di produttività e miglioramento dell qualità della vita.