La RU486 in Italia
Era il 2009 e il Mifegyne, l’antiprogestinico a base di mifepristone, meglio noto come RU486, arrivava anche sul mercato italiano.
Anni di sperimenti e di battaglie portate avanti da Silvio Viale, ginecologo e membro del Comitato Nazionale Radicale, avevano prodotto dei risultati, facendo esultare i Radicali Italiani: la donna italiana poteva, finalmente, avere accesso all’interruzione farmacologica della gravidanza.
Una conquista non di poco conto considerando che, a differenza dei metodi tradizionali, l’aborto farmacologico non prevede intervento chirurgico, anestesia e rischi legati a operazioni.
L’Italia, come molti altri stati dell’Unione Europea, abbracciava così gli sviluppi della scienza medica; un abbraccio, però, pieno di riserve e di dubbi ingigantiti nel corso degli anni. Se già dalla sua commercializzazione la RU486 ha suscitato entusiasmi e polemiche, soprattutto di carattere morale, nei mesi scorsi il farmaco ha di nuovo smosso le acque dopo l’aggiornamento delle linee guida sulla sua somministrazione a firma del Ministro della salute Roberto Speranza.
Aggiornamento linee guida
Nell’agosto del 2020, il Consiglio Superiore di Sanità e l’AIFA, in linea con le indicazioni approvate a livello europeo, comunicano la regolamentazione della somministrazione del farmaco e l’eliminazione delle limitazioni introdotte nel 2009. Questo si traduce con l’assunzione del farmaco seguito dalla prostaglandina; con la possibilità di somministrazione fino al 63° giorno di età gestazionale, abbattendo il precedente limite del 49° giorno, e con l’eliminazione dell’obbligo del ricovero ordinario (di almeno 3 giorni) dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento.
La somministrazione è possibile presso strutture ambulatoriali pubbliche attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale e autorizzate dalla Regione, nonché consultori; oppure mediante ricovero a ciclo diurno, ovvero il day hospital. La donna, successivamente, deve sottoporsi a ulteriori controlli.
Le regioni in rivolta
“Un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese”. Mentre sui social il ministro Speranza presentava così l’obiettivo raggiunto, l’Italia si sgretolava in regioni favorevoli e contrari.
Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna e Lazio si adeguano di buon grado agli aggiornamenti; altre gridano allo scandalo, appellandosi al rispetto della legge 194 del 1978 (che disciplina le modalità di accesso dell’aborto e riconosce l’obiezione di coscienza) e al rispetto delle limitazioni introdotte dall’AIFA nel 2009. Come si può ancora leggere nel sito ufficiale, l’Agenzia Italiana del Farmaco precisava:
[…] Sono state disposte restrizioni importanti all’utilizzo del farmaco, al solo fine della massima tutela della salute del cittadino, compito primario dell’Agenzia. […] Condividendo le preoccupazioni di carattere etico che anche questo metodo di interruzione volontaria della gravidanza comporta, la Determina (nr. 1460 del 24 novembre 2009, ndr) rimanda a Stato e Regioni le disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco all’interno del servizio ospedaliero pubblico.
Proprio sul rimando alle regioni, i diversi governatori continuano a fare leva per convalidare l’aborto farmacologico dietro ricovero ospedaliero con lo scopo di non lasciare sola la donna in un momento molto delicato. Ad alzare il polverone lo scorso giungo è stata la governatrice leghista dell’Umbria Donatella Tesei che, abrogata una precedente legge regionale, riconfermava il ricovero obbligatorio, rendendo urgente il confronto tra il Ministro Speranza e il CSS per le nuove linee guida nazionali. E se molte altre realtà italiane tacciono, il Piemonte e le Marche seguono determinati l’esempio della Tesei, scatenando malumori e proteste.