Sull’origine del mondo e le sue avvincenti contraddizioni esiste una letteratura dispiegata nei secoli, nei contesti e nei territori. Ma che ritmo avrebbe il mondo e le sue variazioni senza quell’insieme di frequenze e vibrazioni che chiamiamo “suoni”?
Gran parte della filosofia si è espressa, forse troppo metaforicamente, nel sottolineare l’impossibilità di esistere e comunicare senza la materia fisica delle onde sonore; questo è il primo stimolo per comprendere come la vita degli esseri viventi, su questo pianeta, sia regolata e condizionata dalla musica e i suoi infiniti linguaggi semantici. Come un battito cardiaco universale, la musica regola il nostro percorso, le nostre emozioni, il nostro istinto e anche la nostra salute.
E allora perché nel mondo c’è così tanta malvagità?
Nonostante il patrimonio artistico e musicale mondiale, com’è possibile che la storia dell’umanità si sia sempre scontrata con l’avidità e la bramosia di potere dell’essere umano?
Alla banalità apparente di tale domanda, potrebbe corrispondere una risposta altrettanto banale, quanto provocatoria: E’colpa della brutta musica!
Partiamo da un concetto prettamente epistemologico: la tonalità non è il motore del mondo; ciò che la nostra percezione è abituata a riconoscere come “giusta” o “regolare”, dipende anche da un sistema condiviso di fattori sociali, oltre che fonologici.
Secondo T.W. Adorno, la tonalità è stata in parte un processo culturale volto a sottoporre la musica a una logica discorsiva, per sottoporla a una forma di concettualità generale, in modo che le relazioni fra gli elementi (che si tratti di accordi o pensieri) possano avere un significato condiviso. A pensarci bene questo tentativo è rintracciabile anche nella classificazione stilistica dei repertori musicali: dal barocco al classicismo, passando per il romanticismo e, successivamente, per l’espressionismo novecentesco, lo studio dei linguaggi tonali e atonali della musica europea a anglo-americana si è concentrata più sulla sua evoluzione sociale, fisica e analitica, piuttosto che su quella prettamente istintuale.
Beethoven riuscì a sviluppare il contenuto della sua musica, partendo proprio dal senso tonale della stessa lingua da utilizzare. Una funzione analoga fu interpretata da Mahler, ma forse il maggior contributo in questo senso arrivò dalla “scuola russa” di Prokof’ev, Stravinskij, ma anche Bartók semplicemente per il fatto di dare al ritmo, lo stesso risalto e lo stesso valore espressivo che ha la melodia. Partendo dal senso del ritmo è possibile, ai giorni nostri, domandarsi se il livello qualitativo e creativo della musica contemporanea sia in qualche modo co-responsabile della caduta di valori e riferimenti etici essenziali allo sviluppo dell’umanità.
Nell’epoca in cui la tecnologia digitale determina una spinta di accelerazione globale alle nuove e vecchie generazioni, contribuendo massicciamente allo sviluppo comunicativo del messaggio, è anche vero che l’uomo comune ha finito per lasciarsi guidare quasi completamente dall’intelligenza artificiale, non solo dal punto di vista professionale e quotidiano, ma anche a livello percettivo.
Un senso di disagio inconscio regna all’interno di quello che un tempo era chiamato “villaggio globale” e la musica che nasce al suo interno riflette ogni possibile mutamento sostrativo e linguistico. La musica che circola oggi, fatta di generi e sottogeneri che certo non riflettono una novità sociologica, poiché rappresentano uno dei tanti elementi di stratificazione storica nella società di massa, parla un linguaggio semplicistico e a tratti banale, perché riflette una realtà che non vuole trovare argomenti “alieni” di discussione e, o, riflessione.
Scrive Herman Hesse, nel suo gioco delle perle di vetro: “La musica può perfezionarsi quando le brame e le passioni non procedono su vie false. La musica perfetta ha una sua causa. Essa nasce dall’equilibrio. L’equilibrio nasce dal giusto, il giusto dal senso del mondo. Perciò si può parlare di musica soltanto con chi ha compreso il senso del mondo”.