Se un uomo non sapesse nulla, avrebbe solo una brutale sincerità.
Allo stesso modo, se conoscesse ogni cosa, vivrebbe in una recita sorda e
apatica.
Da quel che ne so io, l’arte si pone da sempre delle domande
essenziali; ricordo i ragionamenti cristallini di Luciano Fabro all’Accademia
di Brera che, spesso, stimolavano la propria ricerca di senso.
Carico di un insano ottimismo parto alla volta di Milano perché
decido di incontrare una curatrice d’arte. Ho in tasca un pacchetto di domande che non
sono né filosofia né economia né storia ma solo desiderio di comunicazione. D’altronde, la mia paura quando si entra in
una galleria è che sbuchi da qualche angolo una sorta di troll (in realtà è uno
gnomo armato di ascia) che si precipiti a spiegare cose per conto di altre
persone. Tra dispensine e comunicati stampa, meglio guardarsi negli occhi.
La curatrice arrossisce e, il giorno seguente, mi dice al
telefono: “Stefano, io ho fatto tanti sacrifici per essere parte di questo
sistema e non voglio buttare tutto all’aria per un articolo. Non sono fatta per
questi ragionamenti”. E sparì nella nebbia in preda ad un tragicomico
rossore. Oibò!
Poco male; la storia dell’arte, per fortuna, è piena di
gente innamorata. Proprio questa settimana è stata inaugurata al Museo
Diocesano di Milano la mostra di un bozzetto in gesso di Lucio Fontana che fu
presentato ad un concorso per la realizzazione di un’opera a soggetto religioso
in occasione della proclamazione, nel 1955, del dogma della Assunzione della
Vergine. Quello che si trova in mostra è, in realtà, il bozzetto dell’opera da
presentare alla commissione giudicante, la quale la ritenne troppo
espressionista. Ecco che ritorna lo
squillante bagliore delle singole verità che esprime un’opera d’arte che
possono disarmare e disarcionare dai propri cavalli in corsa. Evidentemente, le figure non risultavano di
facile leggibilità in quello che è un magnifico avvoltolarsi di spire e grumi
gessosi fatti per impeto, tanto da lasciare intravvedere le impronte delle dita
nella gran massa poderosa spostata con vigore.
Trovo emozionanti quelle impronte sul gesso perché lo trovo una
dimostrazione di viva presenza umana. Basta spostarsi poco più in là, nel
Museo, ed ecco che si aprono allo sguardo altre impronte, più o meno celate.
Basta osservare, nella sala immediatamente adiacente, il
ginocchio di una grande tela di Filippo Abbiati, pittore seicentesco e
caravaggesco, per trovare queste magnifiche pennellate morbide che tradiscono,
sotto di sé, un sommovimento incontrollabile.
Questa pulsione umana vibrante sotto le setole del pennello a stento si trattiene
sotto l’ombra bituminosa del ginocchio per regolarne la forma.
Si può intravedere anche la tipica preparazione bruno rossastra
sulla quale veniva poi stesa la pellicola pittorica.
Ovunque, nel museo, si possono riconoscere queste impronte.
Vien da sé che la pittura non abbandonerà mai l’essere umano perché avrà sempre
bisogno, o almeno spero, di queste verità anche solo temporanee e passeggere (almeno
quanto le teorie sulla morte). Sono comunque le sue verità. Osservo lo
splendore di alcune tempere su tavola del Quattrocento e vi riconosco quell’uomo
che dovrà nel corso dei secoli divincolarsi da quel rigore compositivo.
Perforare lo spazio della tela, come insegna proprio
Fontana, è, in effetti, la reale pulsione di un artista che deve
necessariamente accorgersi di sé, di non essere esclusivamente il risultato
involontario di flussi di mode e convenienze.