Seconda fiction del regista Duccio Chiarini, film prodotto da Mood Film, Cinédokké, House on Fire Productions, Bravado Films, RSI Radiotelevisione svizzera, con il sostegno di Eurimages, Regione Lazio, CNC, UFC Ufficio Federale della Cultura, TorinoFilmLab
L’ospite, ovvero la crisi generazionale fatta “uomo”. Plot presto detto. Un atto d’amore tra Guido e Chiara (l’ottima Silvia D’Amico), un atto come tanti altri per una coppia stabile. Questa volta, però, il condom si buca. Che fare? Pillola del giorno dopo? Guido chiede di attendere. Chiara no: coglie la palla al balzo, esterna dubbi sul rapporto, e la coppia scoppia. Per Guido inizia la deriva.
Per la regia di Duccio Chiarini, tra le più recenti opere italiane L’ospite è un film molto scritto. Una scrittura che il protagonista Daniele Parisi/Guido sintetizza magistralmente, in una prova d’attore densa di non clamori, a riprova di quanto sia stata digerita la trama prima di farla sgorgare e distribuire per tutti i 96 minuti di lungometraggio. “È stata ambientata a Roma – dice Parisi – ma questa storia potrebbe essere ambientata ovunque”.
Bene. Ma a che punto sta L’ospite? Dove si può vederlo?
Il film ha debuttato al Festival di Locarno, dove è stato anche premiato dalla critica. Poi è stato presentato al Torino Film Festival ed è uscito in Francia e in Svizzera. In Italia, invece, stentiamo ad uscire. Siamo in attesa di sapere quando e dove. Se può rincuorare, però, il film lo si può guardare in aereo.
Come “in aereo”?
Sì. Ero su un volo internazionale e mi sono visto con tanto di sottotitoli. L’ospite era nel carnet dei film offerti per alleviare il viaggio.
Ok, allora invitiamo a volare spesso; ma cosa ti ha spinto a fare questo film?
Sotto il profilo strutturale, perché l’ho sentito vicino al mio precedente: Orecchie. Una sorta di on the road a piedi, in cui il protagonista attraversa varie camere da letto di conoscenti ed amici. L’Ospite, però, della commedia ha toni inediti, una modulazione che ha favorito una recitazione costretta all’essenziale. Insomma, un carattere adeguato alla storia che, alla fine, mostra quanto la figura del maschio Alfa sia sgretolata.
Per essere sostituita da cosa?
Direi, dal maschio Delta. Cioè da quello che, dal mio punto di vista, è il maschio contemporaneo.
Quindi, una rottura generazionale rispetto al passato?
Sì. Noi siamo diversi da quel che ci hanno raccontato i nostri padri. Il mondo è cambiato e la figura del maschio è in crisi. Ecco: abbiamo avuto il coraggio di fare una commedia mostrando la fragilità del maschio.
In che senso? Un maschio che rifiuta di essere il capo branco?
Esattamente. Un maschio che esterna la propria incapacità, una primizia per un certo genere di filmografia.
Vabbè, ma come spieghi la contraddizione di un uomo, incapace sì, ma disposto comunque a diventare padre?
Secondo me, la manifestazione di questa fragilità contiene in sé una grande forza e, soprattutto, una rivoluzione. Il film dice l’accettazione del cambiamento, anche se faticosa; poi, una grande forza nel lasciar andare le cose, le persone, stante la paura della solitudine. Non a caso, la madre dice a Guido: “Noi, prima, le aggiustavamo le cose: voi no”.
Con “voi” si riferisce anche a Chiara, la compagna di Guido. Che donna è Chiara?
A parte la grande prova di chi l’ha messa in scena, la bravissima Silvia D’Amico, Chiara sembra essere già madre: ma di Guido. Più matura, consapevole, lungimirante, per me una figura positiva. Guido, invece, è combattuto, tra una visione del mondo antico e del mondo odierno.
Affari di generazioni, quindi. Ecco: Guido/Daniele, oggi, dove sono?
Bella domanda. Parlo di me. Credo che il percorso umano vada di pari passo con quello artistico. Quando a 23 anni sono entrato in accademia, alla Silvio D’Amico, ricordo il saluto della scuola che, più o meno, suonava così: “Benvenuti alla regia accademia… voi siete l’eccellenza!”. Subito immaginai un mondo: tournée, spettacoli, teatro, vestiti shakespeariani. Alla fine dei corsi, ci hanno dato il diploma e ci hanno stretto la mano. Una volta fuori, ci siamo guardati attorno: niente camerini e luci, nessun abito di scena. Ecco, questo è il mondo.
E cosa hai fatto allora?
Sono entrato subito in una compagnia, che dopo qualche anno però è fallita. Quindi, in un laboratorio ho incontrato Paolo Rossi che, con poche parole, mi ha spinto a scrivere: “Secondo me, tu devi fare le cose tue”. Così, quello che lui chiama il “teatro di sopravvivenza” mi ha dato la possibilità di restare in vita, avere nuove opportunità e mettermi in discussione. Il cinema è arrivato così: Alessandro Aronadio mi vide in uno spettacolo che facevo in un teatrino di appena 20 posti, ubicato sotto casa sua.
Beh, vederti all’opera non è niente male. Nell’Ospite mi ha colpito la tua recitazione. Non sei il perfetto eroe, non sei il perfetto antieroe: eppure vivi e fai vivere formidabili momenti “discreti”, indefinibili. Dove sei andato a prendere questo bagaglio?
(Ride) Tutto è iniziato guardando Buster Keaton. Da bambino ero affascinato dagli attori comici. Più avanti, il mio professore di filosofia mi regalò Le rire di Henri Bergson, un saggio sul comico che mi offrì analogie con il teatro dell’assurdo, con lo straniamento. Da lì, sono arrivato a Keaton.
Caspita, hai scelto un’asticella d’alta quota! Nessun nome italiano?
Come no? Per me, nella commedia, l’italiano che giocava sul minimalismo è Francesco Nuti, un attore che considero un autentico keatoniano, perché ha sempre lavorato sulla misura e sul togliere. Ecco, quando mi è stata data l’occasione di andare sul grande schermo, dove un sopracciglio diventa gigante, ho sempre lavorato a sottrarre. Magari, prima o poi, metto più su anche la mia asticella.