L’OMICIDIO DI ALIKA OGORCHUKWU: SOLO SOTTO LO SGUARDO DI TUTTI
È il 29 luglio e a Civitanova Marche, in corso Umberto I, la via principale della città, Alika Ogorchukwu sta vendendo i fazzoletti e accendini, come ogni giorno.
Alika è un venditore ambulante nigeriano di 39 anni, immigrato da 16 insieme a sua moglie. Vive a San Severino e dopo aver salutato moglie e figlio, si è recato a Civitanova Marche, perché lì, all’uscita dei negozi, riesce a vendere qualcosa e ricevere un po’ di elemosina.
È ancora il 29 luglio, sono passate da poco le ore 14:00 ma Alika Ogorchukwu non c’è più, è stato ucciso.
L’assassino è Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, operaio metalmeccanico trentaduenne, indagato per omicidio volontario e rapina.
Alika viene aggredito con violenza, colpito con la sua stessa stampella, che Ferlazzo utilizza per massacrarlo di botte, per poi soffocarlo, fino a togliergli la vita. La vittima cerca di difendersi, come mostrano i filmati girati dai passanti, ma è claudicante per un incidente in bici subito l’anno precedente, per questo usa una stampella per muoversi, e quindi non riesce a sopraffare il suo aggressore, tantomeno a difendersi.
A nulla è valso l’arrivo dell’ambulanza, poiché i sanitari del 118 hanno soltanto potuto constatare la morte della vittima, rimasta senza vita sul marciapiede. Il suo assassino si è allontanato insieme alla compagna, rubandogli anche il cellulare.
Durante un primo interrogatorio Ferlazzo si difende, affermando che il venditore avrebbe importunato la sua fidanzata, facendogli in questo modo perdere le staffe. Un eccessivo senso di protezione, che non avrebbe comunque giustificato un tale atto omicida.
A 24 ore dai fatti, però, è la stessa compagna dell’operaio che lo smentisce, confermando i sospetti degli investigatori: Alika era stato un po’ insistente nel richiedere l’elemosina, e questo sarebbe bastato al suo aggressore per togliergli la vita.
Fatti come questi dovrebbero far riflettere su ciò che definiamo comunemente e, forse superficialmente, umanità.
L’umanità di un uomo, mosso soltanto da razzismo e violenza, così tanto irrispettoso della vita da aver ucciso un altro, lasciando vedova una donna e orfano un bambino di 8 anni.
L’umanità di tanti altri, passanti e spettatori, che hanno assistito, fotografato, ripreso la scena con i propri cellulari, senza però intervenire, se non urlando da lontano, “Fermati, così lo ammazzi”. Ma se la furia era cieca, di certo non è stata neanche disposta ad ascoltare, e così Alika Ogorchukwu è morto, solo, indifeso, ignorato.
I venditori del luogo lo descrivono come una persona tranquilla, che tutti conoscevano da quelle parti, estraneo a quei comportamenti imputatigli dal suo assassino al momento del fermo.
Ma nonostante ciò, se anche la “semplice” solidarietà non bastasse a spingere un essere umano a salvarne un altro, in questo caso neanche la consapevolezza che fosse una brava persona ha consentito uno slancio di umanità.
Ma il punto non è quanto Alika fosse o meno gentile, o quanto sia stato o meno insistente nel chiedere una moneta; il punto in questi casi è un altro.
La storia di Alika è una storia tanto più grande di lui, che, purtroppo, risuona come una canzone già ascoltata, perché di episodi del genere, in tutto il mondo, ce ne sono anche troppi.
Così tanti che soltanto quelli così eclatanti fanno il giro dei social, di giornali e telegiornali, scatenando uno sdegno generale che passa veloce così come è arrivato.
Due anni fa in America, ha fatto molto rumore il caso di George Floyd, uomo di colore di Minneapolis, che, dopo essere stato fermato perché ubriaco, viene ammanettato e soffocato con il ginocchio da un poliziotto, Chauvin, mentre, sperando che basti a salvargli la vita, sussurra “please, please, please”.
Anche in Italia esistono molti esempi di violenza e morte causate da razzismo, violenza e ignoranza.
Alika è solo l’ultima vittima di una cultura di odio e vigliaccheria, in cui la vita di un altro, specialmente se non “come me”, non ha tale valore che ne giustifichi la difesa.