L’ideale sarebbe non dimenticare mai, trovarsi a pensare a certi momenti anche se non c’è un giorno a ricordarlo, non poterne fare a meno, tenere un segnalibro sulla storia, e sfogliare quelle pagine così importanti più spesso.
Ieri, 27 Gennaio, era il giorno della Memoria. In questo giorno, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono i campi di concentramento di Auschwitz.
Ma in questo giorno non è la libertà che viene celebrata, non è la prima cosa a cui si pensa. Ciò che permea questo giorno è il ricordo delle vittime, della crudeltà, delle vite spezzate, di una storia sanguinosa e di luoghi senz’anima.
Ciò che ogni anno vediamo attraverso film, documentari, sono immagini di sofferenza e disumanità, in cui milioni di persone diventano numeri, in cui si mostra il peggio di cui è capace l’uomo. Il tutto assume un colore grigio, il colore della cenere.
Ciò che ogni anno ascoltiamo sono le voci dei sopravvissuti, testimonianze dell’orrore.
Ma ciò che è importante ricordare, è che all’orrore si può sopravvivere, senza tornare mai più alla vita.
I trattamenti crudeli, l’impotenza assoluta, la tortura prolungata, essere continuamente di fronte alla morte propria e dei compagni, la fame e la sete, il fumo proveniente dai forni crematori, la paura che dalla prossima doccia non si farà più ritorno, la degradazione subita dalle SS, sono tutti fatti che vanno ben al di là di qualunque teoria traumatica.
Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine, gli esperti parlano di “sindrome del sopravvissuto”, una sindrome appartenente alla “famiglia” dei disturbi post-traumatici da stress.
La sindrome del sopravvissuto è caratterizzata da un sentimento di colpa per il solo fatto di essere sopravvissuti, accompagnato da ansia e rabbia, da depressione, flashback e disturbi del sonno.
Un esempio di questa sindrome, riconducibile alla Shoah e alle terribili conseguenze sulla vita dei sopravvissuti, è Primo Levi, scampato ai campi di concentramento e poi morto suicida, perché vittima di un estremo senso di colpa nei confronti di chi, a differenza sua, non aveva mai fatto ritorno.
Ciò che sta alla base di questa sindrome è il confronto tra la fortuna propria e la sfortuna dell’altro. Ciò che causa il senso di colpa del sopravvissuto è la minaccia al senso di equità e giustizia che dovrebbe esserci tra gli esseri umani e che, in questo caso, porta a porsi la domanda “perché io sono vivo e altri non lo sono?”
La sindrome del sopravvissuto, così come tutte le conseguenze dell’aver vissuto un’esperienza tanto devastante, non si limita ad influenzare la persona che ne è vittima, ma si sviluppa in una catena di sofferenza che si tramanda tra le generazioni.
Il terrore permea le relazioni presenti e future, occupa uno spazio totalizzante che richiede di fatto la rinuncia al diritto di esistere nel presente, perché il trauma non riguarda soltanto le ferite fisiche e gli avvenimenti accaduti nel passato, ma l’impossibilità sperimentata dal sopravvissuto di lasciare realmente i campi di concentramento, di sentirsi libero dal senso di pericolo, annientamento, disumanizzazione e morte.
Ed è per questo che il sentimento di colpa del sopravvissuto si tramanda ai figli, che hanno il compito di salvare il genitore dalla realtà della prigionia, impossibilitati a sentirsi essi stessi liberi dal senso di colpa.
Quattro anni fa sono stata ad Auschwitz Birkenau.
Non è possibile entrare in un posto così pensando che sia una semplice visita, e che una volta finita si torni a casa uguali a prima. Cambia tutto, l’orrore diventa un po’ meno immaginario, non te ne libererai più ed è giusto così.