La grande fuga: l’espulsione di massa dei ricercatori in Italia una vera emergenza nazionale
Precari, ricattabili, costretti a fare i bagagli per cercare fortuna altrove per non vedere svilito il proprio titolo. Questa è la fotografia di un Paese che mette sistematicamente in fuga i propri dottori di ricerca e ricercatori universitari, scattata dall’ottava indagine su Dottorato e Postdoc a cura dell’’ADI – Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia.
L’indagine dell’ADI fornisce il quadro più completo e impietoso delle condizioni di vita e di lavoro dei dottorandi in Italia, delle drammatiche conseguenze dei tagli che hanno colpito il mondo dell’Università e delle reali prospettive di carriera di chi ottiene un dottorato di ricerca.
Secondo le elaborazioni che l’ADI ha condotto su dati ministeriali, i posti di dottorato banditi inItalia nel 2018 hanno registrato una flessione del 3,5% rispetto all’anno precedente, attestandosi a 8.960 posizioni. Dal 2007 i posti di dottorato banditi si sono ridotti addirittura del 43,4%: cifre che hanno accompagnato la contrazione generalizzata di risorse per il sistema universitario, con i tagli lineari per oltre un miliardo di euro inaugurati dal governo Berlusconi e la legge 133 del 2008.
Un taglio selettivo che ha diviso il Paese creando le premesse per la creazione di un sistema basato su atenei di serie A e di serie B. Dal 2007 al 2018 il Nord ha persi il 37% di posti di dottorato, il Centro il 41,2% ed il Mezzogiorno addirittura il 55,5%. Oggi il Nord conta il 48,2% del totale dei dottorati banditi in Italia, il Centro il 29.6% ed il Mezzogiorno il 22.2%.Gli atenei del centro e del sud si svuotano di dottorandi e, a catena, di giovani ricercatori e di docenti, in un ridimensionamento che coincide con la progressiva desertificazione delle possibilità di crescita e sviluppo per gran parte del Paese.
Le differenze nell’offerta dottorale in Italia si accompagnano alle diseguaglianze nelle condizioni di lavoro dei dottorandi. Accanto ai dottorandi con borsa si trovano infatti coloro che, pur avendo gli stessi obblighi formativi e di ricerca, non beneficiano di una borsa di dottorato. Fino al 2016 i dottorandi non borsisti erano anche tenuti a pagare tasse annuali dagli importi anche superiori alle due mensilità di borsa: una tassazione superata in seguito grazie a una campagna di pressione della stessa ADI. Nel 2018 ancora il 16,9% dei dottorati è bandito senza borsa: una percentuale in progressiva riduzione negli ultimi anni (nel 2010, ad esempio, ammontava al 39%) ma il confronto con il trend dei dottorati con borsa (negli anni pressoché costante) dimostra che la diminuzione dei posti banditi senza borsa non si traduce in un corrispondente incremento di quelli con borsa.
L’indagine contiene anche i risultati di un questionario diffuso dall’ADI nelle università italiane e che ha raccolto in totale più di 5.000 risposte complete. Da queste, ad esempio, emergono importanti differenze nelle tasse di iscrizione al dottorato, pagate da borsisti e non, e variabili a seconda degli atenei. Tra coloro che le pagano, il 50% versa meno di 200 euro, mentre il restante 50% corrisponde importi che in alcuni casi arrivano ai 2.000 euro. Si tratta di una “tassa sul talento” che fornisce, in ogni caso, un gettito esiguo agli atenei, e di cui ADI chiede l’abolizione.
Per quanto riguarda il mondo dei ricercatori, i dati del Cineca elaborati dall’ADI rilevano che all’interno delle università il personale precario ha superato quello stabile, con 68.428 lavoratori a tempo determinato a fronte di 47.561 a tempo indeterminato.
Di particolare rilevanza è il focus che l’indagine ADI dedica quest’anno alla questione di genere e da cui emerge che tra il personale stabile solo il 37% è di sesso femminile. Tra il personale precario si ha invece quasi parità tra i due sessi: il 47% è costituito da donne ed il 53% da uomini. La percentuale di donne, inoltre,si riduce progressivamente man mano che si procede verso le posizioni apicali: il 50,3% tra gli assegnisti, il 41,1% tra i ricercatori a tempo determinato di tipo B, il 37,5% tra i professori associati e solo il 23,1% tra i professori ordinari.
Particolarmente inquietante risulta infine la proiezione elaborata dall’ADI sulle prospettive di carriera degli attuali dottori di ricerca. Secondo le stime dell’indagine, con gli attuali livelli di risorse stanziate per il reclutamento e considerando i dati ANVUR sul turnover degli atenei, il 56,2% dei dottori di ricerca non avrà possibilità di proseguire nella carriera universitaria, venendo espulso dal mondo accademico dopo uno o più assegni. Se poi si considera la platea degli assegnisti di ricerca – la categoria più numerosa (e meno tutelata) di ricercatori precari su cui oggi poggia gran parte della ricerca e didattica degli atenei – lo scenario diventa ancor più fosco. Secondo ADI infatti solo 9,5 % di loro riuscirà ad accedere a una posizione strutturata anche dopo 12 anni di contratti precari. Il che significa che la stragrande maggioranza, più del 90% non avrà alcuno spazio nelle università italiane.
Per migliaia di giovani ricercatori che intendano proseguire nel lavoro di ricerca l’unica alternativa è quindi quella di emigrare all’estero, con un perdita netta di risorse e potenziale di crescita per tutto il Paese. Per chi volesse spendere il proprio titolo e competenze nella pubblica amministrazione, nella scuola o nel settore privato la situazione non appare migliore. Come denuncia ADI, sia il settore pubblico che quello privato in Italia attualmente non valorizzano adeguatamente il titolo di dottore di ricerca e l’esperienza di ricerca e docenza universitaria. L’indagine ADI consegna quindi al pubblico e alla politica il quadro clinico di un sistema universitario e di un Paese sempre più ammalato, che non investe e perde le sue risorse migliori, insieme alle sue prospettive di sviluppo e innovazione. Una crisi cominciata da lontano e che diventa sempre più cronica.