L’ultima uscita del Migration Policy Debates dell’OCSE conferma ancora una volta il basso livello di attrattività dell’Italia per migranti altamente qualificati, come laureati e dottori di ricerca. Su una scala da 0 ad 1, l’Italia è fanalino di coda nella classifica dei 35 Paesi OCSE, con un indice di attrattività di circa 0.4: quart’ultima. Fanno peggio di noi soltanto Grecia, Messico e Turchia. Il rapporto dell’OCSE individua le cause della scarsa attrattività dei Paesi analizzati nella presenza di contesti poveri di alte competenze. I Paesi in cui gli alti livelli di formazione e l’elevata qualificazione non vengono valorizzati sono anche quelli che più difficilmente possono rappresentare una meta ambita per talenti internazionali. Uno dei fattori che ha contribuito a fare dell’Italia un simile deserto va attribuito alle politiche di de-finanziamento sistematicoin istruzione, in formazione ed in ricerca e sviluppo.
Dalla legge 133 del 2008 ad oggi, le risorse sottratte al sistema universitario ammontano a circa un miliardo e mezzo. Il report dello Spazio europeo della ricerca (SER) del 2018 tratteggia il quadro di un ritardo strutturale dell’Italia rispetto agli standard e obiettivi europei. Nel 2017, la percentuale di PIL dedicata alla ricerca e sviluppo si fermava allo 0,50%, al di sotto della media europea (0,65%), con una contrazione della crescita della spesa dedicata dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Se gli investimenti pubblici scarseggiano, il settore privato in Italia si guarda bene dal finanziare la ricerca. La quota degli investimenti in R&S finanziata da privati in Italia è fra le più basse in Europa, attestandosi appena al 2,6%, contro il 7% della media UE (SER 2018:5).
In tale quadro, le prospettive di carriera in Italia per chi ha un dottorato non sono affatto promettenti. La VII Indagine ADI ha dimostrato che solo il 9,5% di chi ottiene uno o più assegni di ricerca è destinato a diventare professore associato. Al di fuori del mondo accademico il titolo di dottore di ricerca non è valorizzato come dovrebbe essere. Si pensi che solo il 9,3% dei dottori di ricerca trova occupazione nel settore dell’agricoltura o dell’industria e, di questi, solo poco più della metà può aspirare a fare effettivamente ricerca: secondo le dichiarazioni rilasciate all’ISTAT, solo il 65% di essi (ISTAT, 2018).
Non può sorprendere quindi che l’Italia sia tornato ad essere un Paese di migranti in fuga. A inizio 2018, erano più di 5,1 milioni i cittadini italiani registrati come residenti in un altro Paese. E se il 42,2% delle persone sono emigrate da oltre 15 anni, o addirittura sono nate in un altro Paese, il 21% invece ha fatto le valigie solo negli ultimi cinque anni e un altro 17% tra i 5 e i 10 anni fa (Fondazione Migrantes Aire). Un bilancio che annovera anche i ricercatori: si stimano circa 30mila cervelli in meno nel decennio 2010-2020. Il rapporto ISTAT relativo al 2016 mostra allo stesso modo che la fascia di età in cui si registra la perdita più marcata è quella dei giovani dai 25 ai 39 anni: circa 38mila, con un’incidenza di laureati del 28,5%.
Un Paese che non offre prospettive ai suoi laureati e dottori di ricerca è quindi allo stesso tempo un Paese incapace di attrarre talenti ed alte qualificazioni dall’estero. Un impoverimento in entrata e in uscita dal Paese che ne mina alla base le prospettive di sviluppo.