Un altro anno di pandemia ha tristemente accompagnato le nostre vite e l’esercizio che ci si suggerisce è quello di immaginare come sarà il mondo dopo questa esperienza. Ognuno, secondo le proprie predisposizioni, prova a delineare un mosaico di ipotesi; dall’economia alla società, fino ai linguaggi della cultura.
Anche la musica avrà un ruolo importante e, per quanto mortificata dalla mediocrità imbarazzante delle tendenze di consumo, essa rimane il motore immobile del mondo stesso.
La letteratura è stata sempre ricca di racconti, saggi e opere che provano a descrivere i suoni e le musiche del nostro immediato futuro: basti pensare al romanzo “The Preserving” di Philip K. Dick dove, allo scopo di salvaguardare le grandi opere musicali europee, uno scienziato riesce a convertire le partiture musicali in forme animali in grado di riprodursi e lottare per la sopravvivenza.
Anche senza scomodare la fantascienza, basterebbe la storia del ‘900 per dare una chiara immagine di come la ricerca e la sperimentazione musicale abbia determinato un percorso scientifico capace di andare oltre la grammatica musicale tonale e atonale, per svilupparsi sulla forma fisica del suono, le vibrazioni delle onde e la generazione dello stesso attraverso strumenti non convenzionali.
Era il 1913 quando il musicista e pittore futurista Luigi Russolo diede vita alla famiglia degli intonarumori; una serie di generatori acustici in grado di produrre suoni che avrebbero dovuto descrivere il mito della velocità e della rivoluzione urbana.
Né “Il paesaggio sonoro” il musicologo canadese Robert Murray Schafer parla di come i suoni e rumori del mondo moderno siano diversi da quelli del passato, per qualità e intensità, al punto che in futuro si potrebbe arrivare a una sordità universale.
Poiché il mondo è destinato a un cambiamento e che la pandemia ha rivoluzionato le nostre vite, è lecito chiedersi quale sarà la musica del futuro, ma soprattutto il suono in cui vivremo.
Si parte da un tema caldo come la ripresa degli spettacoli e dei concerti dal vivo, ma anche il modo di fruizione degli stessi. C’è da aspettarsi un tempo d’incubazione poiché i nostri comportamenti sono cambiati e dunque non è realistico pensare di prendere immediata confidenza con la partecipazione collettiva.
Meglio allora chiedersi com’era la situazione prima del coronavirus. La frequenza nei concerti e nei teatri è stata sempre molto distante, quando avrebbe potuto ridursi, secondo il confronto costante fra i settori, ma soprattutto alla necessità di superare la dicotomia fra musica colta e popolare. I rituali classici del concerto sono cambiati nel tempo, mostrando una progressiva tendenza alla ricezione individuale, riducendo le occasioni di ballo, pogo o qualsiasi altra formula ritmica, per concentrarsi a immortalare il momento sui social networks; in altre parole, la preferenza a registrare il momento, anziché viverlo.
Il tempo sospeso in cui la pandemia ci ha confinato dovrebbe darci la forza di scoprire il mondo nuovo tra i relitti del vecchio, avrebbe detto Gramsci, attraverso il quale comprendere che la natura stessa dell’esistenza è fatta di suoni: essi non possono essere interamente sostituiti, proprio come la serializzazione dodecafonica non poté sostituire la tonalità cromatica negli anni ’20 del XX secolo.
Abbiamo sperimentato la musica dai balconi, i concerti in streaming e le chitarre sui terrazzi, ma il rischio che la progressiva sostituzione della creatività con la spettacolarizzazione dell’evento sia il leit motiv nel futuro è dietro l’angolo.
Occorre sfruttare al meglio le dinamiche di questo tempo-non tempo, solo così sarà possibile immaginare il suono in cui vivremo, citando uno dei grandi volumi del musicista e storico Franco Fabbri, spingendo lo sguardo verso un futuro più indistinto e più remoto, ma certamente più immaginabile in conformità a quello che già abbiamo conosciuto, del presente e del passato.