Al via, la settimana del Festival di Sanremo.
La grande kermesse dedicata alla canzone italiana giunge alla cifra, quasi tonda dei settanta anni e, come sempre accade in questo periodo, la città dei fiori diventa la protagonista non ufficiale della cronaca mondana. Le crisi internazionali e la pandemia generalizzata devono lasciare parte del loro spazio rappresentativo, per far posto alle indiscrezioni e alle inevitabili polemiche che hanno fatto del Festival, suo malgrado un terreno di discussione, ma anche di scontro politico, sociale e culturale.
Si è partiti con le polemiche riguardo la partecipazione, sul palco del teatro Ariston, di Rula Jebreal: la giornalista palestinese, da sempre molto incandescente nei confronti dell’onda populista ed estremista che sta riscrivendo la natura delle democrazie occidentali, è stata invitata in qualità di co-conduttrice, assieme a Diletta Leotta, per una delle serate della manifestazione. Si è parlato anche di una possibile intervista della stessa Jebreal a Michelle Obama, sul tema della violenza sulle donne; la scelta di questo binomio non sarebbe stata gradita a tutti.
Un altro aspetto che ha sollevato gli animi sarebbe il connubio tra la lunga schiera di co-conduttrici scelte dal direttore artistico Amadeus, sulla base anche di relazioni degne del miglior gossip nostrano e la partecipazione del trapper mascherato Junior Cally, accusato di aver scritto canzoni intrise di violenza e sessismo.
Nulla di nuovo all’orizzonte, vista la tematica sociale e culturale.
Or dunque cosa è possibile aggiungere alla questione sanremese?
Apparentemente nulla! È questo il problema, perché, come spesso accade, l’elemento che passa in cavalleria è la musica; seppur di manifestazione musicale si tratti!
La questione artistica di Sanremo è una lunga e interminabile diaspora tra puristi della musica “colta” e alternativa e la cultura popolare, tralasciando i canoni e gli stilemi inevitabili del linguaggio più basilare nella Popular music.
È vero che negli ultimi anni il Festival si è, per cosi dire, ritagliato uno spazio importante del pubblico giovanile; la presenza di grandi nomi della scena musicale contemporanea, da Lo Stato Sociale a Mahmood, ha sicuramente favorito l’avvicinamento a Sanremo da parte di una grande fetta della generazione millennial.
La necessità di uscire fuori dallo schema della canzone italiana classica, per abbracciare tematiche e linguaggi che guardano al presente: e proprio in quel momento che entra in scena la Trap; un surrogato della cultura Rap, con la voglia e l’irriverenza di negare ogni possibile valore o identità, per celebrare non l’estetica, ma l’esteriorità, come se il mondo reale fosse quello un gigantesco smartphone su cui scaricare impulsi che prima erano più renitenti a uscire.
Dovrebbe risultare emblematico il fatto che sullo stesso palco salgano, un personaggio accusato di fomentare violenza e sessismo e una delle icone (piuttosto controverse) del movimento MeToo, ma in realtà esso è la dimostrazione di come il Festival di Sanremo abbia creato un cartogramma preciso sullo stato attuale della musica contemporanea in Italia. Nello stesso momento la scure censoria ha colpito nuovamente personaggi più o meno indigesti al mainstream come Povia e Davide Van De Sfroos dei quali si può condividere o non certe idee, ma non hanno mai incitato nessuno alla violenza.
In ogni caso quella mescolanza di riserve Indie o It-pop, che dai primi Marlene Kuntz a Levante si sono ridimensionati all’interno di una cornice popolare, cercando di mantenere uno spirito ribelle, pur tornando a centrare la leggerezza della canzone italiana, con la “rivoluzione dell’immaginario plastica e tatuata” del Rap 4.0 sta cercando di imporre la musica italiana del futuro; che guarda caso salirà sul palco dell’Ariston e successivamente su quello del I° maggio.
Dal “menefreghista” Achille Lauro al “futurista” Diodato, passando per una nuova rivisitazione di Morgan, riaffiora Irene Grandi, Le vibrazioni e altri volti storici della Kermesse, intervallati dal posteriore “Gallardo” diElettra Lamborghini; perché anche a Sanremo di sessismo bisogna parlare, ma solo dopo qualche stacchetto sexy.
Scherzi a parte i pronostici mettono ancora una volta in evidenza un quadro dove né la musica, né l’esecuzione saranno i protagonisti, ma il bisogno di apparire e stupire. Poco importa che alcuni dei possibili vincitori cantino come ultras allo stadio e altri non cantino neanche, perché il consumo musicale tramite playlist ha condizionato la stessa offerta musicale, per cui a pagare saranno sempre musicisti, arrangiatori e produttori che cercano quotidianamente di sopravvivere a chi, grazie a una maschera o un po’ di tatuaggi in faccia e due parole irriverenti, fa il pieno di Like su Instagram.
Ovviamente si spera sempre di poter ammettere di aver fatto un pronostico sbagliato.