Nel 2019 l’8,8% degli italiani risulta residente all’estero. A partire sono soprattutto i giovani la cui mobilità per studio, ricerca o lavoro è scelta, ma spesso anche necessità.
Barconi sì, barconi no. Mentre si discute animatamente sull’ingresso degli stranieri nel nostro Paese, gli italiani sono i primi a fare le valigie. Su un totale di oltre 60 milioni di cittadini a gennaio 2019, l’8,8% è residente all’estero, con 120mila partenze nell’ultimo anno. In termini assoluti, gli iscritti all’Aire al 1° gennaio 2019 sono 5.288.281. Questi i numeri che emergono dal rapporto Italiani nel mondo 2019, presentato il 25 ottobre dalla Fondazione Migrantes.
Dal 2006 al 2019 la mobilità italiana è aumentata del 70,2% passando, in valore assoluto, da poco più di 3,1 milioni di iscritti all’AIRE a quasi 5,3 milioni. Di quest’ultimi quasi la metà è originaria del Meridione (48,9%); il 35,5% proviene dal Nord e il 15,6% dal Centro. A scegliere l’estero tantissimi giovani: il 22,3% degli espatriati ha tra i 18 e i 34 anni.
Lo studio dedica un focus alla mobilità per studio e formazione. Viene evidenziato come, in un contesto globalizzato, molti ragazzi sono portati a spostarsi per studiare o svolgere attività di ricerca. In più il mercato del lavoro, anch’esso globale, è sempre più competitivo, veloce, mutevole e teso verso il successo: questo spinge ad ampliare il raggio di ricerca delle opportunità al fuori dai confini nazionali, facendo propendere per quelle che garantiscono maggiori chance di crescita e valorizzazione. Secondo Migrantes questo fenomeno si presta a una duplice interpretazione perché può essere positivo nel caso la mobilità coincida con la volontà di arricchimento e perfezionamento, ma può assumere pure connotati negativi quando corrisponde a una costrizione dettata dall’impossibilità di realizzarsi nel proprio Paese.
Secondo il rapporto, le esperienze di studio all’estero coinvolgono il 13% dei laureati del 2018: l’8,9% ha aderito a un programma dell’Unione Europa (quasi esclusivamente Erasmus), il 2,4% ha svolto altri percorsi riconosciuti dall’università, mentre l’1,7% ha deciso di sedersi sui banchi di un’altra nazione su iniziativa personale. La destinazione più scelta è la Spagna (26,2%), seguita da Francia (11,1%), Germania (10,6%) e Regno Unito (6,2%). La partecipazione ai programmi di studio all’estero è più frequente fra i laureati del gruppo linguistico (30,8%), medicina e odontoiatria (18,5%) e architettura (16,1%). Il mercato del lavoro sembra premiare quelli che hanno trascorso un periodo oltreconfine per imparare: il loro tasso di occupazione è pari al 73,9%, 6 punti percentuali in più rispetto a quello registrato tra i laureati “sedentari”. Anche la loro busta paga è più pesante: percepiscono, in media, 1.307 euro mensili netti, l’8,8% in più rispetto agli altri.
Per quanto riguarda l’ambito della ricerca, la motivazione principale che induce a svolgere un periodo all’estero è la possibilità di collaborare con esperti (55%), seguita dall’esigenza di elaborare la tesi di dottorato (13,8%) e di usufruire di laboratori o di attrezzature specifiche (12,8%). Il 72,5% di chi ha fatto ricerca fuori si è recato in un paese europeo, principalmente nel Regno Unito (13,9%), in Francia (13,6%) o in Germania (11,6%). Si tratta degli stessi Stati, a parte la Spagna, che attraggono anche gli universitari. Fuori dall’Europa il richiamo più forte è quello esercitato dagli Stati Uniti (15,4%). Il livello di soddisfazione dei dottori di ricerca emigrati è molto alto: è pari, in media, a 8,7 su una scala 1-10. Gli aspetti più apprezzati sono il miglioramento delle competenze di ricerca (8,3), la disponibilità di strumenti e infrastrutture (8,2) e i rapporti con il gruppo di ricerca (8,2).