Se c’è uno scrittore che non ha bisogno di molte presentazioni, questi è Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Eppure, a duecento anni dalla sua nascita, ancora ci sorprendiamo a scoprirlo, a rileggerlo.
Nato a Mosca l’11 novembre del 1821 in una famiglia agiata, si avvicina presto alla scrittura sperimentando, tra alti e bassi, un percorso che lo porterà ad essere uno degli autori e pensatori russi più apprezzati.
La vita di Dostoevskij, come spesso accade agli autori, è costellata di gioie e dolori che si riversano in gran parte delle opere scritte. Si parte dal principio; l’autore è ancora un adolescente quando dice addio alla madre, stroncata dalla tisi, e poi al padre assassinato.
La perdita della figura paterna, estremamente autoritaria, lo segna per sempre iniziandolo – a detta di molti studiosi – a un disturbo che lo torturerà a vita: l’epilessia.
Nel 1843 è sfiorato dal servizio militare e dalla povertà. L’anno successivo, deciso ad abbandonare entrambe le realtà, traccia il suo primo lavoro intitolato Povera Gente, raccontando le precarie condizioni del popolo russo nel diciannovesimo secolo.
Negli anni l’occhio di Dostoevskij si perfeziona, impara a catturare la realtà che lo circonda e a interpretare umori e malumori del suo tempo.
Condannato a morte nel 1849, con l’ingiusta accusa di sovversione, riesce per un soffio a evitare il patibolo grazie a un’improvvisa revoca della pena. Provato dall’esperienza, lo scrittore aborra la pena di morte e illustrerà questa sua ferma posizione anche in opere come L’idiota.
Le sofferenze, però, non sono ancora finite e un Dostoevskij scampato alla fucilazione è costretto all’esilio in un campo di lavoro in Siberia. Questa sua condizione, che lo nuoce moralmente e fisicamente, ispira il noto romanzo Memorie dalla casa dei morti.
La libertà arriva nel 1859 quando l’autore ritorna a casa, riprende a scrivere, diventa padre e marito. Gli anni successivi sono quelli del lavoro intenso, caratterizzati da collaborazioni con riviste e pubblicazioni che gli conferiscono notorietà; è il caso di Memorie dal sottosuolo, Delitto e Castigo, I fratelli Karamazov, solo per citare alcuni.
Perché leggiamo ancora Dostoevskij?
Dostoevskij posa per sempre la sua penna nel1881, vinto da un enfisema polmonare, ma le sue opere continuano a narrare.
Continuano a narrare la straordinaria complessità del suo autore, di chi ha osservato e saputo descrivere quel sottosuolo che è attuale quintessenza dell’individuo. La faccia che l’uomo si ostina a portare è solo la punta dell’iceberg del suo vero essere, dell’animo che, con le sue parti più oscure, cova in profondità.
Le opere rispondono ai cambiamenti che caratterizzano lo sguardo dello scrittore: ora progressista, ora conservatore. La penna di Dostoevskij vaga senza sosta, impegnata nella ricerca della verità, nella condanna delle convenzioni, in una qualche conferma della fede e in tanto altro ancora.
I personaggi dell’autore russo devono fare i conti con loro stessi; molti sono minacciati da mancate certezze e immoralità, tutti sono in constante equilibrio tra bene e male.
Le regole di questo equilibrio precario, l’uomo moderno le conosce bene e per questo non dobbiamo stupirci se ancora oggi ricerchiamo il pentimento dell’uomo amorale in Delitto e castigo o la solitudine delle emozioni immaginate ne Le notti bianche.
A duecento anni dalla sua nascita, Dostoevskij continua a scavare nel sottosuolo. E, attraverso le sue pagine, lo scrittore invita a proseguire il viaggio abissale per una profonda valutazione del proprio essere.