Una domanda, secca, senza possibilità di appello o di dubbi, tremendamente attuale in un momento in cui dall’Ucraina scappano milioni di persone verso la pace, verso le nostre Nazioni, verso le nostre case.
Magari sono riusciti a scappare prima, lasciando ricordi, oggetti, persone, amici, quotidianità, tutto indietro, forse hanno anche assaggiato la scure della guerra, sono stati svegliati dalle bombe, si sono rifugiati nei bunker, nelle metropolitane, in posti sicuri, anche se di sicuro, di fronte alla guerra, non c’è nulla.
Lunghi viaggi, con la macchina quando va bene, rispettando i tempi del conflitto, a piedi nella maggior parte dei casi, un passo dopo l’altro pensando intensamente al passato che, fino a qualche minuto prima era, un vivido presente. Il futuro verso la quiete, i Paesi vicini, l’Europa, dove la gente accende la televisione, dice “Poverini”, si commuove, ma spesso finisce lì.
Viaggiano, sono profughi, a volte senza una meta ben definita, si imbattono in proposte di aiuto, speranze, si aprono cuori, sorrisi, mani ma le porte delle nostre case? Siamo disposti realmente a dividere la nostra abitazione con degli sconosciuti? Qui non si tratta solo di dare un aiuto, di offrire una soluzione temporanea perché qui il tempo non si può quantificare, non sono solo ospiti ma cercano rifugio dalla guerra. Ci si apre totalmente, si condivide la quotidianità, vitto e alloggio, non si torna indietro.
Usi e costumi diversi, tu non sai chi sono loro e loro non sanno chi sei tu, ma tu sei a casa tua. Non è “solo” una donazione economica, i generi alimentari inviati, non vale in questo caso il brutto slogan “aiutiamoli a casa loro” perché in questa circostanza, a casa loro, c’è la guerra. Liberiamoli dalla guerra allora, direte, ma anche quando questa terribile piaga finirà sarà difficile ricostruire la quotidianità, a volte il passato non si recupera più così come i palazzi bombardati.
Bussano alla nostra porta, come un illustre predecessore in una notte di Natale, siamo in ciabatte e vestaglia, ancora assonnati, sono lì davanti a noi, trasandati e stanchi per il lungo viaggio, disperati e stravolti riescono comunque ad accennare un sorriso come se fosse un grazie preventivo.
No, non ci pensa il nostro Stato, il nostro Comune, la nostra città, è tutto rimesso alla nostra coscienza di singolo, se diciamo sì non sappiamo cosa aspettarci, se diciamo no rischiamo di farli marcire nel loro status di profughi. Sono uomini e donne di tutte l’età, accomunati dal fatto che sono stati costretti, dall’oggi al domani, a lasciare la loro terra.
Non siamo più davanti al telegiornale ma siamo protagonisti di quel telegiornale, dalla nostra risposta dipende l’esito finale. “Posso entrare?”, non abbiamo molto tempo, poi magari proveranno a bussare alle porte del vicino. Le paure e i sensi di colpa ci mangiano, abbiamo pianto per loro, poveri ucraini, nei giorni scorsi, siamo tentati, subito dopo malediciamo il nostro Sindaco o il parroco, hanno tanti spazi, perché non lo fanno loro?
Dipende da noi, ancora una volta, perché i profughi non possono aspettare i tempi della burocrazia.
E allora che facciamo, apriamo o no le porte di casa nostra?