L’arte della caccia ha ormai lasciato il suo posto di antica tecnica al più moderno allevamento animale che, se da un lato è meno impegnativo per l’uomo, dall’altro è causa di importanti effetti collaterali.
La produzione della carne crea una convergenza di interessi politici, economici e sociali in cui non è possibile valutare un solo aspetto a discapito degli altri. Per questo preoccuparsi solo delle questioni ambientali o solo su quelle inerenti le tradizioni e quindi l’economia locale, non ha senso. Già nel 2006 la FAO[1] aveva comunicato l’incredibile impatto che la zootecnica stava avendo sull’ambiente, causando più gas serra dell’intera industria dei trasporti; a quattordici anni di distanza le cose non vanno meglio.
La maggior parte delle emissioni di gas serra derivano dalla digestione del cibo da parte degli animali da allevamento e un’altra percentuale, meno considerevole ma pur sempre importante, si trova nel letame e nella produzione del cibo destinato al bestiame. I gas serra composti da anidride carbonica, metano e ossido di diazoto sono i responsabili dell’innalzamento delle temperature che stanno alla base del cambiamento climatico e del riscaldamento globale. [2] Gli stessi effetti del riscaldamento globale vanno poi a disturbare i delicati equilibri degli ecosistemi, distruggendo o peggiorando la quantità e la qualità delle colture destinate a nutrire gli allevamenti e in piccola parte anche gli esseri umani. Effetti indiretti ma che comunque intaccano e aggravano ulteriormente l’impatto ambientale degli allevamenti e salubrità stessa degli animali. [3]
Oltre al riscaldamento globale, che per molti può passare in secondo piano poiché la produzione di carne è motivo di importanti entrate economiche, ciò che non si può non considerare è che un allevamento fatto in malo modo si traduce in una pessima qualità del prodotto. Infatti, allevamenti intensivi o semintensivi devono ricorrere a una alimentazione ipernutritiva e all’uso costante di antibiotici per far crescere velocemente l’animale ed evitare la diffusione di eventuali malattie. Da un lato è sicuramento più facile per l’allevatore poter controllare la salute degli animali avendoli tutti chiusi e ammassati sotto un unico tetto ma, dall’altro, è poco naturale l’utilizzo di farmaci a scopo preventivo. Un po’ come quando si fa un intervento di chirurgia poco invasivo e si è costretti a prendere qualche dose di antibiotico per evitare le infezioni: semplice ordinaria amministrazione? Più un caso eccezionale.
Per concludere: gli allevamenti intensivi non consentono alle piccole realtà di emergere in quanto, pur avendo una produzione decisamente più sostenibile, non possono essere competitivi sul prezzo. La Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus sostiene l’iniziativa “Slow Meat- Meno carne, di migliore qualità”[4], con questa iniziativa si cerca di promuovere gli allevamenti locali al pascolo che consentono di ridurre le emissioni di circa il 30% e orientare il consumatore- privati, aziende o istituzioni- a scelte alimentari sostenibili. Le prime indicazioni utili arrivano proprio dal loro slogan: consumare meno carne, di miglior qualità; variando la scelta di razze e specie si allenta la pressione su determinati tipi di animali; scegliendo tagli diversi si possono ridurre sia lo spreco alimentare che le produzioni intensive; diffidare dai prezzi troppo bassi; quando possibile leggere le etichette per verificare la provenienza o consultare il macellaio; ricordarsi che locale è meglio.
Per non turbare i lettori preferiamo non trattare qui delle modalità di abbattimento e macellazione degli animali ma per chi volesse approfondire può trovare nel Regolamento (CE) n. 1099/2009 del 24 Settembre 2009 tutte le informazioni a riguardo.
[1] “La zootecnica pone una grave minaccia sull’ambiente”, Ottobre 2006, FAO
[2]“Climate Change Impacts on Basin Agro-ecosystems”, Nazan Koluman-Darcan, Hasan Kutlu e Osman İnanç Güney (2018), pp. 223-242
[3] idibem
[4] “Presentazione Slow Meat”, Fondazione Slow Food Italia, Novembre 2018