La guerra, in realtà, non si è mai fermata. In alcune parti del mondo, nemmeno la pandemia è riuscita a concedere una tregua al dolore di tante popolazioni che hanno sperimentato nella propria storia soltanto conflitto e paura.
Oggi la guerra tocca di nuovo l’Europa. In un tempo in cui trincee e arruolamento obbligatorio sembravano un lontano ricordo di più di 70 anni fa, il conflitto si fa spazio e annienta senza distinzione di età, uccidendo senza remore persino i bambini.
E come per ogni guerra l’unica speranza di sopravvivenza è la fuga, lasciarsi dietro la propria vita, la propria casa, affrontare un viaggio pericoloso, per salvarsi.
È da sempre la contraddizione di chi scappa dalla guerra. Affrontare il grande pericolo di morire per sopravvivere. Affrontare questo pericolo per avere almeno una speranza, che altrimenti morirebbe sotto i bombardamenti, proprio come accade a chi resta.
In questo panorama diventa di primaria importanza accogliere chi arriva in Italia, così come in tutti gli altri Paesi confinanti o vicini. E cosa comporta questa accoglienza?
Naturalmente fornire un alloggio in cui stare al caldo, beni di prima necessità, cure mediche e tutto ciò che è inerente alla salute fisica, probabilmente compromessa dagli attacchi e da un viaggio attraverso Paesi con temperature molto rigide.
Altrettanto importante, però, è accogliere i profughi con un immediato sostegno psicologico, per trattare le conseguenze emotive di un tale trauma, lavorare sull’accettazione e sull’elaborazione.
Per questo in tutta Italia sono stati avviati servizi di Psicologia dell’Emergenza, rivolta a tutti i cittadini ucraini rifugiati, ma anche agli altri, italiani e russi, che soffrono per il conflitto in corso.
Per le consulenze psicologiche i profughi ucraini saranno accolti nelle famiglie, negli alberghi e ex covid hotel, nei progetti Sai, nei Cas e centri di accoglienza ecclesiastici. Le Regioni hanno avviato diversi progetti per affrontare l’emergenza psicologica che sta travolgendo l’Ucraina, la Russia e l’Europa intera.
Commuove la solidarietà che si percepisce in tutta Europa, la disponibilità ad accogliere, il coinvolgimento, la voglia di fare la propria parte nel proteggere chi fugge dalla guerra.
Colpisce, però, il paragone con i migranti libici, tunisini, quelli in fuga dall’Africa più povera e campo di continui conflitti.
Muri, fili spinati, polizia ai confini, è ciò che molto spesso trovano i migranti “oltre Europa”, considerati evidentemente di Serie B, sacrificabili, che persino in questa condizione di forte emergenza, sono stati spesso respinti anche ai confini dell’Ucraina, quasi come non fossero in fuga come tutti gli altri.
E colpisce, ma non stupisce, che ci sia chi strumentalizza questa situazione così delicata, come propaganda politica o pubblicitaria, mostrando una solidarietà e una spinta tutta nuova alla collaborazione e protezione, invertendo di fatto posizione rispetto a un passato mai speso per i più deboli, ma impiegato a ricercare il favore dei più potenti, respingendo i fragili, i migranti da aiutare piuttosto a casa loro.
Ma ora, come in ogni tempo, l’unica che dovrebbe contare è la parola “persona”, libera dagli aggettivi migrante, profugo, bianco, nero… perché alle persecuzioni, alla guerra, alla povertà non importa la categoria, e a nessuno dovrebbe, persone siamo tutti.